lunedì 8 marzo 2010

Missione compiuta

Pubblichiamo di seguito un resoconto della missione "SOS Haiti Malaki ma Kongo" scritto da Daniele Sciuto di Find the Cure (Mission OH), partito per Haiti con Masengo ma Mbongolo lo scorso 23 febbraio e appena tornati.

"Siamo rientrati. A questo giro è parecchio difficile scrivere qualcosa. Qualcosa che abbia senso, che abbia una testa e una coda, un inizio e una fine, o almeno un verso. E’ faticoso, eppure non lo è mai stato faticoso scrivere. Ma forse è solo la stanchezza, che dopo due giorni è ancora nelle gambe e nella testa. Scriverò poco per adesso, vi lascio le immagini, perché so, che chi ci segue ha occhi che sanno guardare.

Da quando abbiamo messo piede a Santo Domingo, la parola Haiti negli occhi di chi ascoltava si trasformava in dollari. La corriera grossa, quella che trasporta i turisti, non l’abbiamo potuta prendere. Sanno che i bianchi prendono quella corriera, e alla dogana bloccano tutti e tutti i bagagli e chiedono tasse. Si, chiedono tasse sugli aiuti umanitari. La comunità internazionale ha deciso che il governo di Haiti non è in grado di gestire tutta l’enormità di fondi che sono arrivati. Quindi la gestiscono loro e le grandi ONG. “ A si”, dice il governo Haitiano, “voi ci tagliate fuori, e allora noi tassiamo le entrate così qualcosa prendiamo”. Via, iniziano il braccio di ferro. Chiuse tutte le dogane, controlli su tutto e tasse su tutto. Container che si accumulano, file interminabili, aiuti sempre più lenti e bloccati. 15.000 dollari per ognuno dei nostri borsoni con i farmaci, volevano. Piano B allora. Preso pulmino scassato, tipicamente haitiano, con soli haitiani e Masengo che passa inosservato ed io, un po’ molto meno. Strappate tutti le belle etichette Find The Cure Medical Aid dai borsoni e messi in sacchi neri con tanto di nastro vecchio. 11 ore di pulmino. Urla, grida e confusione alla dogana, un diversivo, ma alla fine i borsoni passano. Si sfiora la lite, spintoni, urla, per 5 pulciosissimi dollari. Port au Prince, è quello che è, lo sapete, fior di giornalisti e fotografi sono venuti qui a tentare il loro posto nella fama. E’ rotta, ammaccata, in maniera irregolare, case distrutte a fianco di case integre, sembra più l’esito di un bombardamento che un terremoto. In ogni area verde o piazzale ci sono tendopoli, ma non quelle montate in abruzzo, sono un ammasso di teli di plastica tirati uno sull’altro, una babele di colori e povertà estrema. Non puoi sbagliarti dove sono i campi dei senza casa, l’odore di urina lo senti a distanza di due isolati, poi compare il campo. Qualche doccia e lattrina chimica comune è posta fuori ai bordi. Vivono li, panni stesi, fornelli e dignità, anche se è una condizione alla quale nessun essere umano dovrebbe essere costretto a vivere. E chissà per quanto tempo. Ma la città brulica di vita, tutto scorre nel caos insieme alle macerie come se nulla fosse.

Montagne Noire, dove siamo noi, è alla periferia della città, subito sopra Petionville. Stiamo con Elien, Haitiano, maestro di vodoo da tre generazione. La sua è una casa popolare, arroccata ad alveare in mezzo a case popolari, costruita con quel finto cemento che il terremoto ha tirato giù con facilità. La sua no però, è rimasta su. Non ci sono rubinetti, l’acqua arriva nei bidoni e ci si lava nel cortiletto insieme a tutti. La lattrina è fuori, con vista sui tetti di lamiera delle baracche sottostanti. Ci lascia la sua stanza e lui dorme in una stanza del suo piccolo tempio vodoo. Ci sono altre tre famiglie che hanno perso la casa che adesso sono ospiti li. Dormono sotto una tettoia, anche i più piccolini. E’ duro, scomodo, ma si vive con loro, si mangia con loro, ci si lava con loro, si fa cacca alla latrina con loro, si diventa amici con loro ogni giorno. Il riso da comprare e distribuire non riusciamo a trovarlo, è tutto nei magazzini delle ONG, c’è una gara a chi è più potente, chi fa più cose, chi ha più materiale, ma alla gente haitiana sembra che non arrivi niente. Ci rivolgiamo a una grossa associazione, sappiamo che ne hanno tanto, chiediamo di poterne comprare un po’ perché dobbiamo portarlo nell’entroterra dove nessuno va. Ci fanno perdere tre ore, tante parole, tanti passaggi da un responsabile all’altro, vogliamo riso, ci dicono che ci possono dare caramelle per i bambini. Caramelle? Ma siamo venuti qui per dare da mangiare, la gente ha fame. Lasciamo stare, niente nomi comunque, meglio così, c’è di mezzo anche l’Italia.

Una soffiata ci fa trovare il riso in un negozio di periferia. Affittiamo camion, compriamo 60 sacchi da 25 kg, (1250 goods, 33 dollari, a sacco) 5 sacchi di zucchero, e 10 scatole di olio. Copriamo tutto con dei teli, ci sono predoni per le strade, che attaccano i camion con il mangiare. Poi via verso l’entroterra. Haiti significa “Terre alte”, e comincio a capirlo. La strada sale ripida, abbandona la vista della città per aprire un paesaggio di montagna fatto di pietra. La strada è sconnessa, e intendo tanto sconnessa, corre lungo un crinale. Dopo tre ore il camion si ferma, un guado troppo profondo. Dalla montagna, come per un richiamo cominciano a scendere, uomini donne e bambini, ci sono tutti intorno, prendono un sacco a testa, alcuni due, e i borsoni dei medicinali e ci incamminiamo su per il fiume. Tre ore di cammino nel fiume, poi tre ore di cammino in salita. Noi siamo sfiniti, è notte fonda, per fortuna una bella luna illumina il sentiero. Loro con i sacchi da 25 kg sulla testa rallentano per aspettarci. All’una di notte arriviamo alla meta: il villaggio di Belfontain. Sono tutti li ad aspettare nel buio. Sembrano tanti, mi stringono la mano, quasi increduli che siamo arrivati fino lassù. Un pentolone di acqua bolle già su un fuoco fatto di legna, subito cucinano il riso. Tutti insieme. Lo mangiano come se fosse il piatto più buono del mondo. Raschiano il fondo fino all’ultimo chicco. Se potessi farvi un regalo di ringraziamento, vorrei regalarvi per un attimo la vista di questa cena, varrebbe più di tutte le mie parole. Cari amici, che ci avete dato le donazioni da portare ad Haiti, quando vi chiederanno “cose avete fatto per Haiti” potete rispondere con orgoglio “abbiamo portato cibo e farmaci alla popolazione di Belfontain” credetemi, ditelo pure senza timore, e soprattutto chi conosce Haiti vi farà occhi stupiti e meravigliati. Sono il primo medico che mette piede da sempre a Belfontain. Non pensavo neanche io, ho solo seguito Elien, è lui che ha chiesto aiuti per questa gente, e qui che lui è nato, non lo ha dimenticato e continua ad aiutarli il più che può. Il giorno dopo visite tutto il giorno, fino al buio, e distribuzione del riso, per famiglie per numero di persone. Poi il giorno dopo di nuovo, in un altro villaggio. “Grazie” mi dice l’anziana del villaggio stringendomi una mia mano con due delle sue, “arrivederci, ma non su questa terra”. Sono il primo medico che vede in 70 anni, difficilmente pensa di vedermi ancora. A volte è difficile, la gente davanti al cibo diventa aggressiva, si litiga, si picchia. Ma il contatto che si crea durante le visite mediche fa si che si crei un atmosfera di stima e aiuto reciproco. E tutto va bene. Non c’è traccia di aiuti umanitari in tutto l’entroterra, eppure la terra ha tremato anche qui, eppure le case sono cadute anche qui, eppure qui sono ancora più isolati e sprovvisti di tutto. Sembra un posto non adatto all’uomo, fatto di pietre, impervio. Ma vivono, e sono in tanti, migliaia, famiglie e madri con un sacco di figli. E camminano su e giù per questi sentieri come se fosse pianura, con un sandaletto o magari scalzi. Camminano per andare a prendere l’acqua 40 minuti più in basso, per trovarsi, per raccogliere le patate dolci o le banane. Questo è il popolo Haitiano, e quando dopo quindici giorni lo estraggano da sotto le macerie, in televisione si vede che alza le braccia in segno di vittoria. Perchè è un popolo duro, che sembra ostile, ma è forte, ha ricacciato l’esercito di Napoleone, con papà Salinas ha preso la sua indipendenza, e ha fatto da esempio a molti. Ma questo fa paura. Fa paura all’occidente,e soprattutto all’America. Haiti deve rimanere povera.

Si è sparsa la voce, che una piccola scheggia impazzita della macchina degli aiuti umanitari vive con gli haitiani e con loro sta portando aiuti alle popolazioni dell’entroterra. Così ci chiamano alla radio di Port au Prince, Kreyol 106.5, Un’ora di intervista su come è la situazione dell’entroterra. “Che messaggio volete lanciare al popolo di Haiti?” mi chiede alla fine Samba El, lo speaker “Che Haiti capisca che è un momento importante questo, nonostante la disgrazia, che ha tanti riflettori puntati, che non pensi solo ai dollari, dollari, dollari, perché finiranno presto, ma pensi a costruire il paese per un futuro forte e indipendente. Forza, buon lavoro”. Ma mentre lo dico non ci credo neanche io, non per gli haitiani, ma per tutti questi attorno che gli hanno invaso l’isola sotto il nome di aiuti umanitari. Abbiamo girato tutti i giorni, a piedi, in motorino, in pulman, con camionette, nei mercati e per le strade centrali, ma non abbiamo mai incrociato un bianco. Ma dove sono tutti i bianchi? Dentro i fuoristrada, centinaia di centinaia di fuoristrada nuovi di pacca fiammeggianti intasano le strade di Port au Prince. Nei supermercati a fare la spesa, quando fuori il mercato delle donne pullula di materiale e i soldi andrebbero direttamente alla famiglia, nei locali notturni dove la birra locale Prestige costa 1500 goods, 6 dollari, nelle comode roccaforti dove si gioca a salviamo il mondo. Ma lasciamo stare, non è questo il momento di parlarne.

Comunque, affitto di camion, acquisto, carico e distribuzione di riso, altri 60 sacchi, e visite mediche, così tutti i giorni. Fino a tardi, fino alla fine dei giorni, fino alla fine dell’ultimo dollaro che ci è stato donato in Italia con il preciso incarico di spenderlo per la gente terremotata. Lo abbiamo fatto, contro ogni mia aspettativa personale, ed è stato faticoso, ma è stato forte. E l’ultima notte, finite le visite alle due del mattino il popolo haitiano si scioglie, e ci consegna un certificato di onore e merito per l’aiuto alla popolazione haitiana. Ma abbiamo fatto poco. Forse è il come. Ci circonda e a turno stringono prima la destra e poi la mano sinistra incrociandole. Merci. E i tamburi vodoo vecchi di 300 anni cominciano a suonare, fino all’alba, fino ad accompagnarci alla corriera. Per questa sera e per questi giorni insieme, anche se limitati, per questa gente, anche se poca, per noi ospiti in questa terra anche se solo in due, la fame e il terremoto sono stati lontani.

Grazie a chi ha creduto con noi e forse anche più di noi."

Stiamo ora lavorando al proseguimento del progetto per Haiti; pubblicheremo immagini e filmati appena pronti, su questo blog e sul sito di Malaki ma Kongo.

L'impegno continua, restate con noi...


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